Corrispondenza
Arrigo Boito a Giuseppe Verdi, [26/04/1884]
Data
- Data
- [Milano, 26 aprile 1884]
Tipologia
- Lettera
Descrizione fisica
- Quattro bifolii, tredici facciate scritte.
Ubicazione presso il soggetto conservatore
- Ubicazione
- I-PAas
Trascrizione
Caro Maestro. Ho fatto una punta a Torino per vedere il Castello Medioevale, una meraviglia; e sono arrivato a Milano jeri. Per molte ragioni mi compiaccio d’aver eseguita questa gita; a Torino viddi mio fratello ed alcuni buoni amici fra i quali il Giacosa, che mi fece da cicerone, e Faccio che stava appunto provando la sua Cantata, la quale mi pruddusse, specialmente nel principio e nella cadenza, quel grande effetto che mi aspettavo. Ma la ragione principale che fece riescire la mia gita più felice ancora di quello che io speravo ed inopinatamente opportuna, venne dalle confidenze che Faccio mi rivelò a proposito d’una lettera ch’Ella gli scrisse. Se io non fossi andato a Torino chi sa quanti mesi avrei ancora tardato a sapere ciò che Lei voleva ch’io sapessi per bocca dell’amico mio.
Grazie con tutto il cuore, Maestro mio, grazie ma mi par già troppo d’essere obligato di risponderle sul serio che non accetto; che non accetto la grande, la nobile offerta sua. Questi giornalisti devono essere d’una razza ben diversa da quella della brava gente, non dico tutti, ma la maggior parte. Eccone uno che trova modo di fraintendere così bestialmente le mie parole da costruirne una frase che sta precisamente agli antipodi del mio sentimen to, e questa frase egli la stampa e altri giornalisti la ripetono, e così, per opera degli sciocchi, degli indelicati, si stabilisce fra me e Lei, a danno mio, una posizione sciocca e indelicata dalla quale oggi soltanto mi trovomi trovoliberato. E se mi trovo liberato da questa falsa posizione è, Maestro, per merito suo, e di ciò più che dell’offerta in sé stessa, la ringrazio fervidamente perchécosìda ciò l’animo mio prende occasione di aprirsi a Lei con piena sicurezza. Lessi quella scipita notizia sul Roma, un giornale di Napoli che avevo con me mentre viaggiavo per Genova. Non le so dire quanto rimanessi indignato e turbato. Per tutto il tempo del viaggio pensai come avrei potuto riparare all’asineria del giornalista. Il primo impulso fu quello di scrivere io al redattore del Roma, poi mi colse lo scrupolo di dover scrivere di Lei senza il suo assenso e decisi di chiederglielo. Per ottenerlo piombai a Genova a Palazzo Doria la stessa mattina del mio arrivo, mi risolsi a ciò perché avevo anche la scusa di portarle la fotografia del Morelli, poi subito entrò in sala la Signora Giuseppina e allora mi mancò l’animo di tediare la sua signora con un discorso che aveva un punto di partenza così insensato e che non avrei potuto fare senza mostrare il dispetto dell’animo. Passarono alcuni giorni e mi calmai, cominciai a pensare che il Roma era un giornale noto soltanto alle provincie Napoletane e che nessun altro giornale avrebbe ripublicato lo strafalcione, pensai che le rettifiche e lo scriver lettere ai giornali è cosa vanitosa quasi sempre e vana sempre, riaquistai presto la mia tranquillità forte com’ero nel mio sentimento, pensai che il publico avrebbe letto la no tizia del Roma indifferentemente, e ciò dev’esser vero, sperai che Lei non l’avrebbe vista mai. Ma la sciocchezza umana ha le gambe lunghe. Il Picco lo di Napoli riprodusse la notizia (e ciò seppi a Torino l’altr’jeri) e il Pungolo la riprodusse anche e ciò mi sorprende perché Fortis mi conosce troppo per aver creduto a ciò che stampò, e appena lo vedrò gli chiederò in confidenza s’egli aveva rilette le bozze del suo giornale quel giorno; e mi dirà di no. Ma il publico d’Italia ha poca fede nei giornali e ciò mi permette di non preoccuparmi della reaimpressione del publico. Ma non posso non preoccuparmi del l’effetto che ha potuto proddurre in Lei, Maestro, quella notizia. La lettera diventa lunga, mi perdoni, ma ora che ho incominciato devo dir tutto. Ecco l’origine dell’equivoco. (Beato Lei che ha tanta gloria e tanta autorità da poter rifiutare i pranzi, io non posso permettermi questo lusso, perché avrei taccia di presuntuoso e null’altro.) Al pranzo che mi offersero alcuni colleghi dopo il Mefistofele a Napoli un giornalista garbato, un uomo colto e cortese il Signor Martino Caffiero 8 mi rivolse a brucia pelo questa osservazione: l’Otello sarebbe stato anche soggetto per lei. (Questo prova come anche un uomo gentile può dire delle parole che pongono in imbarrazzo chi le ascolta.) Risposi negando, aggiunsi che non avevo mai pensato all’Otello per conto mio, ma poi accorgendomi che il persistere in questa negativa senza spiegar la poteva esser interpretato come se io portassi poco amore al tema che Verdi doveva musicare, spiegai la mia risposta. Dissi che non ci avevo mai pensato perché sentivo troppo appassionatamente il capolavoro di Schakespere nella sua forma tragica, per poterlo estrinsecare in una manifestazione lirica. (E questo è vero in parte) Aggiunsi che non avrei mai creduto possibile tra smutare la tragedia di Schakespeare in un buon libretto prima di aver fatto questo lavoro per Lei, Maestro, e con Lei (Ed è vero) e che ora soltanto dopo molti ritocchi vedevo con soddisfazione il mio lavoro al quale m’ero accinto con grande trepidanza, riescire dotato di qualità eminentemente liriche e di forme perfettamente musicabili e atte in tutto e per tutto ai bisogni del melodrama. Dissi queste parole coll’accento della convinzione profonda e il Signor Caffiero che le intese rettamente non le publicò perché non è di quelli che publicano i dialoghi che si fanno a tavola, un altro al quale evi dentemente non le avevo dirette e che le intese stortissimamente le publicò nel Roma a modo suo, forse senza maligna intenzione, ma capovolgendo ne il sentimento e attribuendomi un desiderio il cui movente mi offende e che è precisamente il rovescio del gran desiderio mio che è quello di sentire musicato da Lei un libretto che io feci solo per la gioja di vederle riprende re la penna per causa mia, per la gloria di esserle compagno di lavoro per I’ambizione di sentire il mio nome accoppiato al suo e il nostro a quello di Schakespeare, e perché quel tema e il mio libretto le son devoluti per sacro santo diritto di conquista. Lei solo può musicare l’Otello, tutto il Teatro ch’Ella ci ha dato afferma questa verità; se io ho saputo intuire la potente musicabilità della tragedia Schakespeariana, che prima non sentivo, e se l’ho potuta dimostrare coi fatti nel mio libretto gli è perché mi son messo nel punto di vista dell’arte Verdiana, gli è perché ho sentito scrivendo quei versi ciò ch’ella avrebbe sentito illustrandoli con quell’altro linguaggio mille volte più intimo e più possente, il suono. E se ho fatto ciò gli è perché ho voluto cogliere un’occasione, nella maturità della mia vita, in quella età che non muta più fede, un’occasione per dimostrarle, meglio che con le lodi lanciate al viso, quanto amavo e quanto sentivo l’arte ch’Ella ci ha dato.
Ora mi risponda Lei se ha creduto vera la notizia del redattore del Roma riportata dal Piccolo e dal Pungolo. Spero di no. Pure la notizia esisteva e poi ché Lei l’aveva letta, Lei ha sentito lo stesso bisogno che sentivo io, quello di sciogliere un nodo confuso, un quesito delicato, e lo ha sciolto nel modo più squisitamente opportuno che fosse possibile. S’è rivolto confidenzialmente al più fidato de, miei amici perch’egli parlandomi interrogasse l’animo mio e se questi avesse riconosciuto un germe anche lontano di verità nella notizia del giornalista Lei era pronto a donarmi l’Otello perché lo musicassi io.
Lei ha avuto per un momento sul conto mio il dubbio del saggio, che riconosce negli uomini la debolezza d’Adamo, ma questo dubbio s’è risol to in lei con una offerta benigna e generosa. Maestro, ciò che Lei non può sospettare è l’ironia che per me pareva contenuta in quell’offerta senza sua colpa. Veda: già da sette od otto anni forse lavoro al Nerone (metta il forse dove vuol Lei, attaccato alla parola anni o alla parola lavoro) vivo sotto quell’incubo; nei giorni che non lavoro passo le ore a darmi del pigro, nei giorni che lavoro mi dò dell’asino, e così scorre la vita e continuo a campare, lentamente asfisiato da un Ideale troppo alto per me. Per mia disgrazia ho studiato troppo la mia epoca (cioè l’epoca del mio argomento) e ne sono terribilmente innamorato e nessun altro soggetto al mondo, neanche l’Otello di Schakespeare, potrebbe distogliermi dal mio tema; esso risponde in tutto alla mia indole d’artista e al concetto che mi son fatto del Teatro: terminerò il Nerone o non lo terminerò ma è certo che non lo abbandonerò mai per un altro lavoro e se non avrò la forza di finirlo non mi lagnerò per questo e passerò la mia vita, né triste né lieta, con quel sogno nel pensiero.
Giudichi ora Lei se con questa ostinazione potevo accettare l’offerta sua. Ma per carità Lei non abbandoni l’Otello, non lo abbandoni, le è pre destinato, lo faccia, aveva già incominciato a lavorarci ed io ero già tutto confortato e speravo già di vederlo, in un giorno non lontano, finito.
Lei è più sano di me, più forte di me, abbiamo fatto la prova del braccio e il mio piegava sotto il suo, la sua vita è tranquilla e serena, ripigli la penna e mi scriva presto: Caro Boito fatemi il piacere di mutare questi versi ecc ecc ed io li muterò subito con gioja e saprò lavorare per Lei, io che non so lavora re per me, perché Lei vive nella vita vera e reale dell’Arte io nel mondo delle allucinazioni. Ma devo finire. Tanti saluti alla Signora Giuseppina.
Un affettuosa stretta di mano
suo
Arrigo Boito
Note
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Posseduto Insv
Fotocopia (n. 116/20)
Bibliografia
Carteggio Verdi-Boito, a cura di Marcello Conati, Parma, Istituto nazionale di studi verdiani, 2015, n. 53, p. 87-90
Media







Arrigo Boito a Giuseppe Verdi, [26/04/1884]
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