Corrispondenza

Arrigo Boito a Giuseppe Verdi, [07/02/1881]

Data

Data
[Milano, 7 febbraio 1881]

Luogo di destinazione

Luogo di destinazione
Genova

Tipologia

Lettera

Descrizione fisica

Quattro bifolii, quattordici facciate scritte, con busta affrancata (20 cent.). Sulla recto della busta: timbro di «Raccomandata / 915 / 4646»; sul verso, di mano di Boito: «Spedisce A. Boito / Via Principe Amedeo 1»

Ubicazione presso il soggetto conservatore

Ubicazione
I-PAas

Indirizzo (busta)

Giuseppe Verdi / Palazzo Doria / |_Genova

Timbri postali

MILANO / 7 / 2-81 / 5S
GENOVA / 8 / 2-81 / M[...]

Trascrizione


Caro Maestro. Questa volta sono io quello che dice che non abbiamo ancora finito. Tengo le sue tre ultime lettere sul tavolo e le consulto ad ogni tratto, ma per ciò che risguarda le l'ult prime scene dell’ultimo atto ho le idee ancora avviluppate. Varii tentativi riescirono male. Pure Ella mi suggerisce oggi un pensiero che mi pare molto pratico: Aprire l’atto col canto nuziale lontano (bel contrasto dopo la vivacità guerresca del preludio) mentre si svolge in scena il dialogo rapidissimo ma indispensabile di Fiesco e paolo (l’altro apostolo Pietro lo possiamo dimenticare) nessuno se ne accorgerà) e questo dialogo deve assumere un carattere diverso di quello che apparisce nel vecchio libretto. Paolo deve aver preso parte attiva al tumulto dei Guelfi per rovesciare il Doge ed è stato colto e imprigionato e condannato dal Doge stesso a morte. Sta bene che finalmente il Doge condanni qualcuno e poiché abbiamo per le mani un furfante il quale ha tradito il partito popolare per unirsi ai Guelfi ed ha commesse ogni sorta di ribalderie condanniamolo alla forca e non se ne parli più. Viceversa il Fiesco nello stesso momento che Paolo passa fra le guardie per andare al supplizio, il Fiesco, dico, è per ordine del Doge liberato ed è giusto che lo sia, egli non ha preso parte al tumulto, sfido io, era in prigione; così il condannato e il liberato s’incontrano mentre l’inno delle nozze continua e nel loro dialogo Paolo svela l’affare del veleno e dalle parole dei due si dilucidano i fatti che devono essere dilucidati. Una quindicina di versi, non lirici, basterà. Veniamo alla scena fra il Doge e Fiesco. Non s’allarmi, caro Maestro, capisco l’importanza di quella scena che fra le altre cose è la più bella del dramma. Dissi che conveniva mutare alcune condizioni di quel dialogo, alcune è dir troppo, basta una, quella che si con densa nelle parole risorgon dalle tombe i morti. Ma capisco anche la grande importanza di queste parole non le le toglierò ma aggiungerò forse un verso o due per condurle nel dialogo in un modo più logico visto che noi ora abbiamo nel prim’atto creato dei fatti e degli attriti che prima nella vecchia versione non esistevano. Ecco in che consiste la condizione da mutarsi. Ma a proposito di Fiesco prima che mi dimentichi le devo proporre due minuscolissime modificazione alla scena fra Fiesco e Paolo nel penultim’atto e ciò per amor di chiarezza: Invece di quella parola che dice Paolo: Stolido, va che è assai rozza e che può parer ridevole per la sua volgarità (diciamo pure verismo) al publico direi:
   Fiesco: Osi a Fiesco proporre un misfatto?
   Paolo. Tu ricusi? (dopo una pausa) Al tuo carcer ten va
In questo modo si chiarisce questo fatto: Fieschi piuttosto che acconsentire ad un tradimento ritorna in carcere. Questo fatto ci è indispensabile per un mondo di ragioni. Il vecchio testo diceva a quel punto: Fieschi parte dalla destra. E partendo dalla destra dove andava? in prigione? non pare. Dunque accettava non già il patto codardo di Paolo, ma la libertà che era sembra il premio di quel patto. E ciò non era da Fiesco. È utile per noi che Fieschi non prenda parte attiva alla sommossa dei Guelfi per non gravarlo d’un offesa di più verso il Doge e ripeto il miglior modo per impedir ciò è di tenerlo sotto chiave.
Eccole intanto le scheggie di poesia che Lei mi chiede:
                                                    Atto 1°.
                                                  Scena Ia.
                        (quinari tronchi dopo il canto interno di Gabriele)
                                       Am.   Ei vien!... l’amor 
                                                M’avvampa in seno. (sen)
                                                E spezza il freno
                                                L’ ansante cor.
Scommetto che quelli che ha scritto Lei sono assai migliori, ma questi quinari tronchi sono nemici della penna.                                                   —–—————
                     Variante all’ingresso del Coro nella scena del Senato.
Doge:      Ecco le plebi!
La folla:                          Vendetta! Vendetta!
               Spargasi il sangue del fiero uccisor!.
Doge:      Questa è dunque del popolo la voce?!
(ironica    Da lungi tuono d’uragan, da presso
mente)     Gridìo di donne e di fanciulli  
                .............................................
lla scorge che può ripetere Vendetta fin che vuole non solo ma anche l’endecasillabo seguente. Lo scoppio istrumentale e corale può così avere la sua manifestazione e se le note stridenti delle donne nel registro alto trovano il loro posto in quello scoppio il voto del suo poeta è esaudito ed è spiegata la frase sarcastica del Doge. Quella frase la ho posta per affrontare con coraggio la prima difficoltà che ci preoccupava quella cioè di far comparire le donne in un Senato. Se noi faremo rimarcare al pubblico che le donne ci sono e ciò coraggiosamente nessuno si sognerà di farci il più piccolo appunto. Del resto è un fatto noto che le donne ha una parte principale nei tumulti popolari, pensi alla Comune di Parigi. Ma dove diavolo sono capitato? Torniamo al libretto. Eccole i quattro versi d’Amelia per la fine frammento lirico dello stesso atto:
                                                     Amelia:        Pace! lo sdegno immenso
                                                  (a Fiesco)       Raffrena per pietà!
                                                                         Pace! t’ispiri un senso
                                                                         Di patria carità.
                                                                                    —
Ed ora rispondo a due sue domande semiserie: L’osservazione fatta prima le dimostra che io non credo essere censurabile l’aggiungere delle voci di Donne al Coro guerresco
               All’armi! All’armi o liguri
Altre due righe e poi ho finito per oggi. Amelia nell’ultim’atto può essere seguita dalle sue damigelle e come no? Essa ritorno dalla chiesa, dalle nozze, col suo corteo di donne e anche se vuole di paggi.
Saluti cordialissimi.
Non credo d’illudermi se le prometto un altro colloquio per domani.
                                                                                                   Suo aff.
                                                                                                   A. Boito

Note



Posseduto Insv
Fotocopia (n. 116/9)

Bibliografia
Carteggio Verdi-Boito, a cura di Marcello Conati, Parma, Istituto nazionale di studi verdiani, 2015, n. 31, pp. 50-52

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Arrigo Boito a Giuseppe Verdi, [07/02/1881]

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